Calarasi settembre 2013
Il mio intervento seguirà una narrazione sul filo delle vicende giuridiche, che con l’amico e mentore prof. Nicolae Gheorghe, avevamo programmato per queste giornate seminariali, fortemente volute in nome di quell’attivismo politico portato avanti sino all’ultimo giorno della sua vita, costruendo gruppi di lavoro tra l’associazionismo rom, tema più volte abbiamo sviscerato assieme a molti altri.
Come avvocato penalista, per questioni giudiziarie ovviamente, infatti inizio a essere interessata alle violazioni relative alla permanenza sul territorio dei rom, questo popolo da sempre in diaspora, tollerato in Italia e che all’improvviso per via di una modifica legislativa diventavano “immigrati”.
Inoltre per una strana coincidenza di fianco a queste questioni le difese di ufficio per i rom italiani la cui gestione riguardava ovviamente altre tipologie di reati.
Per rumeni, slavi, serbo-bosniaci in quanto extra-comunitari con la Turco Napolitano prima, e la Bossi-Fini dopo, molte furono le persecuzioni perché una legge aveva trasformato una semplice violazione amministrativa in reato penale.
L’Europa all’alba del suo esordio comunitario si risvegliava con l’esuberanza degli sconfinamenti dello spazio Schengen e l’Italia come altri stati dovettero iniziare a cimentarsi con un diritto in fieri che appunto riguardava l’immigrazione.
Fino ad allora un tema nostalgico per i tanti italiani e non immigrati all’estero.
All’improvviso diventavamo noi, per alcune zone dell’Africa, dell’est-Europa il sogno di un riscatto economico e sociale.
Flussi che da allora non si sono più fermati, ho incontrato e seguito storie legate a senegalesi, ucraini, russi e tanti ancora che nemmeno ricordo più.
I rom mi rapirono letteralmente e da subito non fu solo una faccenda legale (ma nemmeno per gli altri stranieri, diventai parte infatti della Consulta per gli immigrati della provincia di Salerno) ma aiuti umanitari, lotte per l’accettazione della loro presenza (oggi potremmo iniziare a parlare di un accompagnamento all’inserimento sociale o una sorta di integrazione ma sempre con la dovuta cautela) opera di mediazione scolastica, intercessione con le istituzioni locali e comunità, religiose e non, poi forze dell’ordine e soprattutto tentativi di dialogo oltre le loro realtà di clan familiari, in senso ampio.
Il punto di vista dal quale provo a muovermi fa indice semplicemente a una responsabilità politica, e non parliamo di partiti o altra istituzione, ma di politica, come quel campo di intervento sociale che ci convoca, che ci interpella con particolari accadimenti che non ci lasciano indifferente.
Strategie che nascono all’occorrenza, movimenti che si coagulano intorno ad un tema, una richiesta improcrastinabile.
Credo nella gratuità e nel radicamento e su questi binari ho “lavorato” con i rom ripeto soprattutto per come ho detto già dal fatto che gli zingari da un momento all’altro diventavano dei “clandestini”, nell’impossibilità quasi totale di una regolarizzazione secondo i parametri normativi relativi alla contrattualizzazione.
Prima il problema non si sentiva tanto, anche se infastidivano queste presenze, erano sopportate, con equilibri però sempre precari ma, a mia memoria, queste convivenze diventarono problematiche soprattutto con l’arrivo in massa dei rom rumeni, con l’ingresso dell’Italia nella comunità europea e appunto col varo di una legge fortemente vessatoria nei confronti degli stranieri.
Iniziarono così le espulsioni, gli arresti a valanga, per i tanti irregolari, ma è quasi un eufemismo, l’irregolarità tout court.. nella mia carriera di avvocato sui generis ho impugnato decreti di espulsione in capo a rom, alla seconda e terza generazione in Italia, per esempio nati e cresciuti a Sant’Agata di Militello, una cittadina siciliana, in provincia di Messina, quindi espulsi dall’Italia al paese di origine (Italia??).
L’esodo dei rumeni e la conseguente proliferazione un po’ ovunque di grossi campi determinò l’allerta e la messa in pratica dei meccanismi previsti dalla legge anche perché l’emblema di questi luoghi è come tutti sanno il degrado, l’abbandono, spesso sono discariche abusive con condizioni igienico-sanitarie impossibili.
Questo più o meno lo scenario dinanzi ai nostri occhi in quella stagione intorno al 2000/2002 e seguenti.
Con violazione di direttive europee e quant’altro, in barba ad ogni tutela dei diritti spesso è bastato il provvedimento di un magistrato che adduceva motivazioni relative alla situazione, come dicevo poco fa, igienico-sanitarie e la questione era bell’è risolta.
Gli sgomberi sono lo spauracchio che impedisce una prospettiva di vivibilità possibile. Allora come oggi, basta citare in Campania il caso discarica di Giugliano, che con l’architetto Valentino attraverso il FCR abbiamo più volte portato all’attenzione dei media visto che le stesse autorità locali li hanno confinati in zone malsane e altamente pericolose.
Più gestibili i piccoli insediamenti che nascevano e nascono un po’ dappertutto, sotto un ponte di un autostrada, una strada interrotta, un vecchio fabbricato, una fabbrica in disarmo, case diroccate, containers mi sono mossa molto per il FCR anche nel napoletano via Argine, il cimitero, il fabbricato nei pressi dell’aeroporto e posti nei quali non saprei nemmeno come arrivarci, mi prendevano mi portavano e tante volte parlando in auto non sapevo nemmeno dove mi trovassi.
I percorsi stradali per i rom hanno spesso svolgimenti tortuosi, essendo il più delle volte analfabeti e, anche per evitare zone trafficate con maggiore visibilità, non sanno leggere i cartelli stradali e le mappe se le inventano declinandole con l’invisibilità.
Quando le forze di polizia intercettavano insediamenti ecco arrivare le espulsioni di massa.
Abbiamo spesso subito retate dalle forze dell’ordine, che mitra alla mano, caricavano le persone per portarle in piena notte prima in caserma, poi in questura o peggio ancora in carcere o per una direttissima in Tribunale.
Cose accadute anche nelle case di accoglienza in provincia di Salerno, più volte visitate da Nicolae Gheorghe, appunto, la questione era sempre quella di evitare di essere schedati con le impronte in questura, inoltre il responsabile delle case, spesso un sacerdote rischiava di subire denunce per reati di favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
Per queste faccende e la “disattenzione” per i rom del supporto cartaceo, documenti, iscrizioni anagrafiche e quant’altro ci siamo fatti anche i processi per false generalità, anche per date di nascita che molte volte essi non ricordavano, cosa assurda per noi ma che spessissimo ho riscontrato con i rom.
Si tratta del reato previsto dall’articolo 496 Codice Penale, norma riformulata da uno dei cosiddetti decreti sicurezza (decreto legge n. 92 del 2008, convertito in legge 125 del 2008) che, nell’ottica di contrastare il fenomeno dell’immigrazione, ha previsto un innalzamento delle sanzioni per coloro che ostacolano o rallentano le procedure di identificazione personale.
“Il reato di False dichiarazioni sull’identità punisce chiunque, interrogato sull’identità, sullo stato o su altre qualità riguardanti se stesso o altra persona, rende dichiarazioni mendaci a un pubblico ufficiale o a un soggetto incaricato di un pubblico servizio nell’esercizio delle funzioni o del servizio.
La pena prevista è la reclusione da uno a cinque anni)”.
Ricordo in udienza il caso di una delle tante Elena Curt che rilasciò dichiarazioni non corrispondenti ai tabulati dell’Afis, Automated Fingerprint Identification System, in italiano “Sistema Automatizzato di Identificazione delle Impronte” che andava comunque riempito, e fu rinviata a giudizio, mentre stava subendo un processo, per il suddetto reato.
Poi la questione degli alias, i soprannomi, i nomi è stato un problema che nella stesura degli atti ha dato spesso non poche difficoltà.
In quegli anni ho lavorato tanto per vincere la mia battaglia contro i decreti di espulsione con il primo accoglimento del ricorso e conseguente annullamento e potrei narrarvi anche aneddoti simpatici, nonostante la tragicità di quanto vi sto raccontando, molta disperazione prima di arrivare alla tranquillità di oggi, almeno per quei nuclei familiari accompagnati quotidianamente per evitare il peggio per loro.
Per esempio il parto di una minorenne con inevitabile segnalazione ai servizi sociali, spesso se i sanitari capiscono che sei rom danno per scontato che sei senza fissa dimora, interessando così il Tribunale per i minorenni ed avviando procedure di monitoraggio, sempre altamente rischiose.
Ultimo caso è avvenuto con rom lavoratori sempre in un piccolo comune della provincia di Salerno Prepezzano e dunque persone completamente autonomi oggi economicamente.
Per tornare a quanto vi dicevo potemmo così ospitare all’inizio una quarantina di persone, che l’Assessore del Comune di Napoli su segnalazione dell’Opera Nomadi di Napoli mi inviò grazie all’attività svolta da una esponente dell’associazione che seguì l’accoglienza fino alle allocazioni presso la scuola Grazia Deledda, la dott.ssa Anna maria Taliento.
Ma tutto questo dopo periodi trascorsi con insediamenti provvisori nei centri sociali e attraverso occupazioni abusive varie.
I rom di Prepezzano erano i rom di Napoli che hanno vissuto tutto questo.
Tantissime sono le persone di Calarasi che sono passate dalle case di accoglienza di una onlus, ma non tutti hanno deciso di restarvi.
In molti momenti ho lavorato infatti più come mediatore che come avvocato, ho puntato sempre lo sguardo sui tempi lunghi e non sulla vittoria del momento.
Violazioni che avvenivano anche nelle strutture ospedaliere dove i rom spesso avevano paura di recarsi proprio per evitare situazioni pericolose. Ma tutte le avventure che ho vissuto con loro direttamente o indirettamente, devo dire che mi hanno trasmesso un atteggiamento nei confronti dell’esistenza che mi ha fatto acquisire stabilità e forza nelle difficoltà.
Breve excursus su San Nicola Varco e ex-Apoff di santa Cecilia (Eboli)
Nella provincia di Salerno si crearono due grossi insediamenti rom e maghrebini con i rom provenienti da zone fortemente degradate della Romania provenienti da Napoli, avemmo il sito di San Nicola Varco dove hanno transitato centinaia di persone, in convivenza anche con gli immigrati del nord africa.
Erano le Rosarno della Campania se qualcuno di voi ne ha seguito le cronache degli sgomberi che ancora circolano su Youtube, sa quanta sofferenza e quanto sfruttamento, ad opera del caporalato, per poche migliaia di euro, hanno vissuto le centinaia di persone che vivevano nel totale degrado di quelle fabbriche fatiscenti, quei siti abbandonati dove però nessuno ha detto che i rom serbi, bosniaci, Montenegrini, e infine rumeni di Tindarei erano stati costretti ad andar via perché minoranza ormai rispetto ai clandestini che vivevano lì ( di seguito un servizio fotografico realizzato da Andrea Del Vecchio per il book conclusivo del whork shop di fotografia svoltosi a Napoli da Nicolas Pascarel).
I rom erano stati i primi ad insediarsi ed i primi ad essere cacciati fuori da quel campo da marocchini, algerini e tunisini.
Una cosa che ho appreso da subito infatti è che i rom sono sempre i meno tutelati, quelli che sono cacciati via da tutti, vite senza valore soprattutto nella guerra tra poveri e tra popolazioni diverse.
Negli sgomberi degli accampamenti gli immigrati lavoratori hanno sempre la gran parte dei sindacati, dei partiti di sinistra al loro fianco e quindi il riconoscimento della loro dignità di lavoratori spesso sfruttati, prima che di immigrati clandestini, dignità che ha potuto farli esporre a viso aperto.
Lo straniero rom, è più straniero degli altri, più “diverso”, il rom fa parte di quelli che vengono etichettati come gli indifendibili, quelli per i quali nessuno si muove, o se ci si muove è per cambiarli…
In quegli anni rovinosi riuscii a coinvolgere anche la Prefettura di Salerno, con a capo il dott. Laudanna, la Croce Rossa, con la dottoressa Tonin, allora era presidente onorario una mia conoscente, la moglie di un parlamentare al governo e tutte le associazioni che potei interessare, ma ciò che certe organizzazioni in un paese del terzo mondo possono fare tranquillamente, come allestire una tendopoli, un servizio sanitario di protezione umanitaria per i bambini soprattutto, lì era impossibile ed avevo il prefetto dalla nostra parte!
Così comunque ho conosciuto la realtà dei campi ed il campo è un luogo aperto a tutte le esperienze, il vivere per strada è questo, ma non ne faccio una questione morale per le inevitabili incresciose situazioni, quando si è costretti a sopravvivere ed in tutti i modi possibili ed inimmaginabili, ma le nostre immorali defezioni, assenze, indifferenze sono di gran lunga più scandalose. Quando andavo al campo, pensavo ai miei amici di Calarasi per i quali ero riuscita a trovar loro un posto decente dove vivere, (comunque qualche famiglia la insediai in abitazioni ma la risposta non è stata la stessa dopo certi trascorsi diventa difficile la convivenza) alle possibilità per i bambini di vivere in un ambiente sano, a quanto fosse stato importante evitare che sconfinassero nell’illegalità la mancanza di permesso di soggiorno, un tempo questione solo amministrativa poi rubricato come reato penale, portò molti a patire ingiusti processi, ingiuste carcerazioni ad entrare nel circuito penale, che faceva di loro prima degli imputati spesso anche dei condannati.
Il tutto a spese per il governo italiano di rimpatri pagati a caro prezzo per i contribuenti italiani, al servizio di politiche che millantano sicurezza che di tutto ne fanno una questione ordine pubblico e che servono pressoché a nulla.
L’impegno per l’assistenza sanitaria, notavamo una certa ignoranza nella cura anche di semplici patologie per cui coinvolgevamo medici amici, andavamo a visitare i neonati ed i bambini ai semafori, all’inizio facevano tutti solo l’elemosina cercavamo di assistere le donne nelle gravidanze ( preciso che ad oggi a Prepezzano tutti sia quelli dell’Oasi che gli emancipati autonomamente hanno assistenza legale e sanitaria, controlli ginecologici e strumentali, ecografia amniocentesi, assistenza morale a tutto tondo grazie sempre da parte di medici volontari).
All’epoca non sapevano di poter usufruire di certe garanzie anche se purtroppo non sempre avevano torto, emblematico fu il caso in cui mi chiamò un ispettore della questura di Napoli per l’espulsione di un rom rumeno che aveva fratture multiple e non si reggeva in piedi, era stato denunciato dai sanitari di un ospedale di Napoli: questo funzionario di polizia era seriamente colpito dalle condizioni gravi di salute di quel povero giovane, era il sabato precedente alla Pasqua, quell’ispettore si vergognava di dover compiere quell’atto, lo andammo a prendere con i familiari a Napoli.
L’amico ricoverato ed espulso, la cui figlia porta il mio nome ora è a Lamezia Terme, altra zona di numerosi insediamenti di famiglie di Calarasi.
Ma gli aneddoti, le storie sono tantissime come pure momenti toccanti nei quali si evidenzia l’abnegazione, la tenacia di tante donne che portano avanti la famiglia con condotte esemplari.
Si potrebbero scrivere pagine indimenticabili sulla donna rom in lotta con le difficoltà della vita, e da parte mia quanta riconoscenza per quanto mi hanno insegnato le donne rom!
Per tornare a questo breve resoconto come mi è stato chiesto, dopo questa fase inizio la lotta per il ri-affidamento familiare dei minori
Comunque per tornare ai provvedimenti di verifica della patria potestà situazione (art.330 cc) si ribaltò perché grazie al Presidente del Tribunale dei minorenni di Salerno, dott. Paolo Giannino, che a Bari nel suo precedente incarico, tanto aveva lavorato e conosciuto i rom, grazie all’illuminato questore dott. Carlo Morselli ed infine grazie al nuovo orientamento giurisprudenziale che accoglieva una interpretazione di un comma di un articolo destinato ai minorenni stranieri presenti sul territorio dalla legge si riuscì far ottenere i permessi di soggiorno ad intere famiglie facendoli di conseguenza, attraverso questi provvedimenti, entrare nel circuito istituzionale con i servizi sociali di zona che monitoravano l’inserimento scolastico dei bambini, il lavoro si permise la permanenza sul territorio regolare.
L’ingresso poi della Romania nell’Unione europea ha fatto il resto rendendo possibile la loro permanenza sul territorio.
Interessante fu poi un progetto di scolarizzazione adulti e bambini che li portò sui banchi di scuola insieme ai genitori, che per la prima volta sedevano sui banchi di scuola.
Certo ognuno sente di poter offrire la propria chiave di lettura, ognuno sente di poter dire la “sua” che come tale rimarrà.
Perché poi una cosa ho capito che, almeno fino ad un certo punto, alla maggior parte di loro interessa poco cosa pensiamo, a meno che non sia funzionale al sacrosanto principio del mangel, del chiedere, chiedere spesso senza offrire nulla in cambio almeno che durante quest’attraversamento non ci si trasformi da entrambe le parti, noi e loro, attraverso uno scambio di punti di vista.
La prima considerazione, quasi ovvia, che vorrei svolgere è che ho capito che sebbene tutti siano rom, non tutti hanno gli stessi problemi, ossia se sono italiano e vivo in casa, e non voglio dire di essere rom per evitare discriminazioni, diffidenza o altro, se sono rumeno ho comunque una carta di identità e bene o male posso circolare in Europa, se sono Macedone i miei documenti quasi sicuramente non valgono niente perché non risulto nemmeno più iscritto all’anagrafe in Macedonia ( ma questo non esclude il paradosso che si presenti istanza di Asilo Politico, pur di avere uno straccio di permesso, ovvero di persecuzione in uno stato che non sa nemmeno della mia esistenza perché magari non vi faccio rientro da 20 anni e sono stata cancellata all’anagrafe ma tutto questo solo perché la Prefettura di Napoli, come è accaduto, decide una sorta di sanatoria attraverso la regolarizzazione di quelli che non abbiano commesso crimini gravi, indirettamente di un censimento. Dunque richiesta Asilo, diniego, permesso umanitario e quindi una regolarizzazione anche se a termine, salvo possibilità di tramutarlo in permesso per lavoro).
A me quindi che è capitata la ventura di leggere la loro storia attraverso le carte ne ho sperimentato la follia dell’esistenza come una nave che ha imparato a galleggiare sui marosi di essa, definire il “nomadismo” come il non pianificare scelte in forza di principi stabili, ma di necessità che nasce dal subire un continuo sradicamento.
Per questo il professor Nicolae Gheorghe, il comandante della nave che ci ha traghettato verso l’attivismo rom, si è battuto strenuamente fino all’ultimo suo giorno di vita perché si rivendicasse per i rom, a partire da loro il riconoscimento di una appartenenza ai luoghi di provenienza ma nella consapevolezza di uno stigma del vivere ereditato da centinaia di anni di esclusione.
Nomadismo è diventato scegliere ciò che diventa urgente, nomadismo è l’abitare lo spazio della fragilità, risolvere nell’immediatezza il problema eveniente senza grandi pianificazioni ma da esigenze dettate dalla contingenza e dalla necessità.
Urgenza di oggi perché magari mi sgomberano, o perché mi è nato un figlio e non lo posso riconoscere privo di documenti o perché minorenne, insomma quello stesso problema che avevo già ieri ma che per me non esisteva, oggi diventa l’urgenza di una scelta il più delle volte sconclusionata, citavo il caso della richiesta appunto di asilo politico da parte di uno che da anni vive fuori dallo stato di provenienza.
(es. i fratelli maggiorenni che riconoscono i figli dei fratelli)
Un nomadismo in una lettura a partire dalla nostra mentalità.
Chiarisco subito che tutti quando parlo di “nomadismo” parlo di una dimensione che fa del nomade il predatore di un mondo che sente estraneo ma dal quale trae la sua sopravvivenza, l’affidarsi alle situazioni come si può ma che non disdegna la bellezza dell’accoglienza di chiunque anche se “straniero”, la gioia dell’incontro, la capacità di adattamento, di apprendere lingue nuove, di modulare la propria con esse, di impregnare la propria biografia con il racconto della propria singolare avventura umana, lo sforzo che dovremmo fare e di analizzare le cose nella complessità come ci ricorda Morin.
Nicolae ha avuto la consapevolezza di un fallimento operativo rispetto al senso di tante battaglie che non hanno contribuito ad una coscienza politica dei rom, e con Alex ed altri lavoriamo alla crescita di questa consapevolezza.
Per quanto riguarda la mia storia dico che pratico associazioni di riflesso, non ho ruoli di potere, non ho interessi personali, né progetti, istanze di rivendicazione prevalenti su altre, navigo a vista con la bussola del buon senso ma quello che sento importantissimo per me è che sento di aver preso posizione nella storia che mi ha messo sulla strada, la cosa buffa è che sono avvocato ma mi sento un mediatore culturale, un mendicante di giustizia, una fallita, una studiosa, una ricercatrice, una che in fondo su tutto cerca di rimettere nel cuore e nella testa di tanti una visione meno ideologica e più concreta di un mondo al quale sembro non appartenere ma grazie al quale il mio sguardo è divenuto molto più radicale , più esigente e se parlo di dignità e responsabilità lo penso a partire dalle nostre disfatte.
Impegnarsi “per far parlare ciò che la società ha reso muti” ma non privi di memoria.
Mi piace ricordare il punto di vista degli Zapatisti che non hanno alcun interesse ad unire i diritti con le identità, non rivendicano ciò che sono ma il diritto di diventare ciò che vogliono” atto di rottura della rigidità dialettica tra realtà differenti che pretendiamo di assimilare.
Vivere nella costante preoccupazione per l’altro verso e per cui dobbiamo coltivare un’ etica dell’ospitalità, ovvero l’apertura verso un avvenire che accade senza essere atteso, ad un dialogo che procede dal rispetto e che pone il tema della differenza come punto imprescindibile di partenza per un incontro fra gli uomini: “come se lo straniero, il diverso, l’altro aggiungo io fosse innanzi tutto colui che pone la prima domanda, o colui al quale si rivolge la prima domanda (…); pertanto lo straniero, ponendo la prima domanda, mi mette in questione “, “colui che viene da fuori”, che “parla una strana lingua”, che produce inquietudine e sospetto.
“Lo straniero è in primo luogo straniero rispetto alla lingua giuridica nella quale sono formulati il dovere d’ospitalità, il diritto d’asilo, i limiti, le norme, i codici di polizia eccetera “.
Il tema dello straniero per Derrida diventa, non solo metaforicamente, l’emblema di un’interrogazione che la società, ciascuna società, rivolge a se stessa: “come se lo straniero fosse la questione stessa dell’essere in questione”.
Grazie allo straniero la società non può fare a meno di interrogarsi sulla propria cultura, sulla lingua e le istituzioni giuridiche in vigore, in definitiva sul modo con cui attua una legge dell’ospitalità, ” coinvolgendo l’ethos in generale”.
E del resto la parola latina “hostis” significa ospite ma anche nemico.
La costellazione semantica, nel suo ambiguo oscillare tra termini opposti (oste, ostile, ospizio, osteggiare…), sembra costituire la trama della nostra identità.
Ma c’è anche un secondo aspetto, non meno significativo: le ampie meditazioni di Derrida sulla sepoltura, sul nome, sulla memoria, sulla follia che abita il linguaggio, l’esilio e la soglia, ” sono altrettanti segnali rivolti alla domanda del luogo, che invita il soggetto a riconoscere d’essere per prima cosa un ospite “.
Svolgendo quella che chiama ” il teatro invisibile dell’ospitalità “, il filosofo ripercorre alcuni tratti dell’elaborazione di Lèvinas, in particolare quelli in cui afferma che “il soggetto è un ospite” o che “il soggetto è un ostaggio”. La tesi centrale di Derrida è che vi è un’impossibile convivenza, una sorta di lacerazione tra” l’ospitalità incondizionata che va al di là del diritto, del dovere o addirittura della politica ” e ” l’ospitalità circoscritta dal diritto e dal dovere “.
In altri termini: ” dando per buona l’ospitalità incondizionata, come dar luogo a un diritto, a un diritto determinato, limitato e delimitabile, in una parola calcolabile? “.
Il problema dell’ospitalità, conclude l’autore, ” è sovrapponibile al problema etico “.